Sua santità Balansûl, dall’alluce
incarnito, coi piedi scalzi di San Paolo e sui sentieri del mito; oltre i
carrubi e all'ombra delle montagne, c’è ancora qualcosa da dire, qualcosa da
mostrare, un bosco per gioire, aria sana da ingoiare; non fosse altro per snidarsi
dal postmoderno, dall’indecenza del trasformismo, dalla claustrofobica e necessaria
evidenza del buono e del giusto; in questo vuoto, nella grancassa dell’abbandono,
un gesto compiuto, un’idea di bellezza fatta pietra, divenuta albero, brucia al
sole dell’altopiano: silenziosa e perenne denuncia del crollo delle idee, della
violenza che assassina la mano, che seppellisce gli occhi e il cuore in colate
di cemento. Che gli imperi muoiano e che di tale morte sia segno
tangibile il crollo delle sue strade è storia vecchia; oltre l’expo c’è chi
scivola paziente e sereno nell’alveo carsico di un nuovo medioevo, una
rivoluzione “annunziata” su tavola tarlata. “Santu Paulu nun perdona, San
Michele nun c’abbandona”. Che forse a contemplare le clessidre s’impara a
scoprire il mistero del tempo? Tortile, precario, sottile e infinito come un
merletto, Balansul amministra i venti dall’alto degli Iblei. Ma non è più tempo
e non si vuole capire che una clessidra, la si guardi o no, vale tanto all’ingiù quanto una lacrima in cascata libera sullo
zigomo dolce di San Sebastiano.