palermo gay pride 21 maggio 2011
venerdì 27 maggio 2011
martedì 17 maggio 2011
"Non fate più scommesse sulla figlia del droghiere"
Antonio Gramsci
INDIFFERENTI
1917
Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire essere partigiani". Non possono esistere solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L'indifferenza è il peso morto della storia. E' la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica. L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
in "La Città futura", pp. 1-1 Raccolto in SG, 78-80.
partito.
venerdì 13 maggio 2011
Non avrai altro dio all'infuori di me
Mentre parlo, di rivoluzioni, di sogni, di libertà, di vita, accanto mi assediano parole di morte, equazioni chimiche, decomposizioni carnali. Oggi è pasqua e a me la pasqua mi ha fatto sempre pensare ad un’idea di rivolta, al superamento delle differenze nell’unica prospettiva della vittoria, quella dell’uomo. L’uomo su tutto, dalla storia alla storia attraverso l’estremo sacrificio. Ma ero io a pensarlo, io che non ero cattolico, io che non potevo esserelo, pagavo il prezzo di un disagio, dell’insensatezza del quotidiano, della fragilità delle apparenze, della frenesia irriverente al silenzio della vita. Quel silenzio che supera in verità l’innumerevole possibilismo delle domande immediate. Sono profondamente convinto che, di fatto, in questa vita ci sia ben poco da discutere. Poche domande, molte senza risposta, poche che invece trovano soluzione in una rivoluzione che attendo da trentadue anni. Ma qui le parole di morte si inseguono come cani randagi sulla miseria smagrita. Mentre io masticavo sangue, il mio stomaco vibrava sulle corde dei miei pensieri. Era questa una conseguenza di tutto ciò che provavo ad identificare come berlusconismo? Era questo il regime? Erano questi i segni di una realtà profondamente mutata nelle sue intenzioni, nelle sue aspettative? Il disagio, la solitudine finivano con l’avanzare su ciò che rimaneva di un’apparente quiete domenicale. Aspettavo la sera come un disperato. Forse solo la sera, la notte, lei, avrebbero potuto acquietare le mie ansie. Rifugiati in patria, ecco cos’eravamo, esuli in casa. Tollerati a mala pena dai padri e dalle madri. Sebbene mortale, desideravo lo scontro: fatto di armi, di parole, di pensieri. Ero convinto che se fossi arrivato allo scontro, se avessi conquistato la parola, avrei potuto ambire alla libertà, all’uguaglianza, al rispetto degli umili, dei lavoratori. “Credi troppo nel genere umano!” Forse era vero, forse era questa la mia follia, la follia del rivoluzionario. Ma non volevo fare tutto ciò da solo, volevo condividere, disperatamente, condividere, pensando che nell’altro avrei potuto colmare la finitezza dei miei limiti, l’assenza che è congenita nell’esistenza del singolo, quel difetto che ci spinge a vivere, a sognare, a lottare. Ero uno di quelli a cui il dubbio tormenta l’intelligenza e avvelena l’ottimismo? Mi ero accorto “che gli uomini –non corrispondevano- all’idea del popolo, che il socialismo non corrispondeva all’idea del Socialismo –e- che essere lucidi vuol dire essere pessimisti”. Ma io quel pessimismo lo odiavo, non avevo scelta. Dinnanzi ad un ottimismo sociale, partitico, il mio era un ottimismo delle idee. Non mi rassegnavo all’idea che un uomo potesse morire per niente. Non esiste il caso, ogni morte è programmata e voluta da un potere che ci rende schiavi. “Non avrai altro dio all’infuori di me”. Era questo il mio pensiero di morte, mentre di morte si parlava. Lì sul quadrante gli ingranaggi muovevano il tempo velocemente verso la sera, il sole calava all’orizzonte, l’estate si apprestava a venire ed un vento tiepido annunciava un sogno africano che mi avrebbe dato sostegno. E poi capita a volte che ci si scorda di tutto, che ci si ritrovi dispersi. Ma è la stanchezza a vincerci. E’ il corpo che si impossessa della mente, tenendola in ostaggio, chiedendo un riposo che equivale al nulla, alla piacevole agiatezza dei vinti. Siamo tutti morti e non ce ne accorgiamo nemmeno. Ma quel corpo è vittima della morte, a lui è negata la resurrezione, freme a contare i lividi di una vita ostinata e crudele, soffre il vento freddo delle notti, l’afa del deserto, la paura del dolore. E’ il corpo della morte fisica, della decomposizione organica. Ma nella mente il mistero è svelato, il dio diventa uomo, il sogno si fa vita, storia, azione. Rinuncia all’essere divino e si fa pensiero, per poi tornare corpo, gambe braccia, mani, cuore, vista, tatto, udito. Così ci si ritrova, come per incanto, nell’istante in cui ci si era smarriti. Ti alzi come eroe in battaglia, indossi la giacca e affronti la strada, fosse solo per una banale scusa: sono finite le sigarette, anche se smettere di fumare riduce il rischio di malattie cardiovascolari e polmonari mortali. Muto, come un pesce, ritorni a nuotare, a contabilizzare la tua lotta, a risistemare i tuoi disegni, a correggere le storture angolari dello sguardo, a scegliere un’ottica sempre più ampia tale da abbracciare il mondo per quello che è, effimera palla malsana nell’universo, a strisciare nelle fogne del tuo carcere per scoprire l’essenza di ciò che vedi, l’essenza di una direzione necessaria e irrinunciabile.
testo e foto Santo Mangiameli
mercoledì 4 maggio 2011
da Nati per distacco. Endiadi di scrittura e fotogiornalismo: Demetra.
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martedì 3 maggio 2011
La "pietà" dei migranti
Riproponiamo
uno dei tanti scatti realizzati da James Nachtwey nel Darfur, ai
confini orientali del Sudan. Si tratta di una madre che accudisce il
figlio malato di epatite E nell'ospedale ristrutturato e gestito dai
Medici Senza Frontiere francesi. Lo facciamo per due motivi. Il primo è
per capire quali possano essere le condizioni umane in un paese, qual è
il Sudan, dilaniato da una guerra civile, disumana e ai limiti del
genocidio, che sin dal 1956 spacca il paese in due metà: quella araba
musulmana e quella cristiana animista in un contesto in cui siccità,
malnutrizione, malattia e povertà sono oramai endemiche.
Così Nachtwey: "Non c'è un posto ideale per costruire un campo profughi" anche perchè l'unica acqua è quella delle pozze infette ad essere "disponibile quando gli accampamenti siano circondati dalle milizie jaweed -filogovernative- che uccidono gli uomini o violentano le donne che si avventurano alla ricerca di cibo e di legna". La seconda delle motivazioni è perchè la relatà del Sudan diventa emblematica, al pari del Chad e di tante altre realtà africane, per comprendere quella dei migranti che atttraversano, in ultima battuta, il Mediterraneo in fuga dalla morte. Osservava qualche anno fa Giulietto Chiesa che questa gente che "scappa dalla morte portandosi dietro la morte", è in crescita esponenziale: "E verranno a milioni, con una legge del contrappasso dantesca che è racchiusa nel dato demografico che facciamo fatica a capire". Ci auguriamo che questi pochi spunti possano far riflettere su ciò che stiamo vivendo oggi, sulle realtà che ci circondano, dalle barche arenate ai c.a.r.a, alle assurde affermazioni dei nostri politici xenofobi e al dato burocratico che pensa alle statistiche e che dimentica come dietro ogni singolo numero ci sia di fatto un uomo, con la sua storia,i suoi diritti, i suoi occhi, i suoi pensieri, la sua memoria.
foto James Nachtwey
testo Santo Mangiameli
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