martedì 19 luglio 2011

nOTO





«Noto è una delle città d'Europa più splendidamente costruite: questa piccola remota località emerge nella memoria al pari di Würzburg o Nymphenburg, come uno dei risultati più raffinati dell'età che produsse Mozart e Tiepolo», diceva lo scrittore londinese Douglas Sladen. E’ vero, Noto suona come una sequenza di note inventate da Mozart, Noto ci abbaglia come la tavolozza del Tiepolo. Basta poco per rendersene conto: avvicinarsi alla città significa comprendere e distinguere quella che, da lontano, si offre -al pari di una pennellata del Tiepolo vibrante di inconsistenza materica allucinata- come sistema architettonico europeo forte, sicuro e padrone di uno spazio profondamente mediterraneo. Sin dal Corso è possibile leggere un racconto di linee, piani, masse che segnarono non certo la ri-costruzione, ma la nuova costruzione della città dopo il terremoto del 1693. La nuova realtà si impose come  qualcosa che nulla aveva a che fare con la memoria, con il passato, rappresentazione elitaria del mondo e segno tangibile di un potere forte, capace di dominare anche le forze più avverse della natura. Oggi Noto appare splendida e lo è ancor di più perché non c’è differenza tra la realtà e le cartoline in vendita sul corso. Bellezza consumabile a poco prezzo. Non voglio negare la fragilità  malinconica delle architetture netine, quell’idea di morte tragica che muove dal sisma e si scioglie ancora oggi nel bagliore di una luce che dissolve ogni forma geometrica. Conoscere è scoprire. Noto Neas o Necton, è anche qualcos’altro. Superato il Corso, arrivati a piano alto, superata la chiesa del Crocifisso e lasciato alle spalle il carcere, ci si ritrova in un labirinto che vive all’ombra della luce. Lì la città diventa un tessuto di piccole e basse case quadrate, aperte alla curiosità del viandante. C’è una donna che spazza, uomini al bar. Una seicento corre ripetutamente attorno agli stessi isolati. Una donna, felice del miracolo della vita, mi sorride mentre il suo Micheal, un simpatico cane, mi abbaia. Mi avvicino, lo accarezzo, ci siamo capiti: lui deve abbaiare, così recita il suo copione, io devo accarezzarlo, così il mio. Decido per qualche foto. Non voglio vedere nulla di barocco, voglio vedere qualcos’altro, un’altra “noto”.  Un arco, un cortile, dei bambini che giocano. Il più piccolo punta una pistola, ma non ho paura, è un giocattolo e so già cosa vuole in cambio, da eroe qual è così come nella sua fantasia. La sua immaginazione diventa mia, mi coinvolge in un gioco delle parti. Un gioco delle parti che capovolge ogni cosa, ogni istante. E’ un nuovo sisma. Eccola,  l’avevo trovata, era quella la mia città invisibile. Si è sciocchi a volte. Presto, al mio arrivo, la Zanna Lucia, me lo aveva detto, puntando l’indice secco della sua mano rugosa: a destra sempre in fondo, dopo gli alberi, sapeva già ciò che cercavo, sapeva già dove stavo andando.







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