Catania,1737. Erano passati due anni da quando l’architetto palermitano Vaccarini, tra i lavori del cantiere, si apprestava a ultimare la fontana dell’elefante. Qualcosa d’importante sembrava venisse a compimento per quei catanesi che da sempre guardavano, con timore, quel pachiderma di lava di cui nessuno sapeva chi, quando e da dove fosse venuto. Alzare gli occhi al cielo, era come staccarsi dalla terra e sentire nello stesso istante, all’ombra delle sue zanne, quei tremori che quarant’anni prima avevano non soltanto raso al suolo le chiese, i palazzi e le piazze, ma decimato migliaia di uomini quasi volessero cancellare per intero la città. Un pensiero di morte e polvere si levava sulla piazza circondata dalle macerie come all’indomani di una battaglia. A segnare il tempo della rinascita, non più voci di gente, ma un picchettare silenzioso di scalpellini curvi sulla pietra. Lo spirito caritatevole, coraggioso e spartano dello sposo di Maria Gomez de Silveyra, quel Duca di Camastra, vicario del regno, morto appena trenta anni prima, aveva ceduto il passo all’educazione romana dell’architetto palermitano, che poco aveva a che vedere con gli incubi di una città spettrale e semideserta.
Ma il nuovo volto incominciava a delinearsi a partire proprio dal suo centro che gravitava come nuova galassia attorno al peso mistico di un elefante di lava. Così accadde circa duecentosettantacinque anni fa. La fontana era pronta e a far da perno l’architetto, che di elefanti ne aveva visti di certo durante gli studi fatti nella capitale, decise di mettere un obelisco. Tra i notabili e le dame, vestiti a festa con gilet ricamati in seta, paillettes, pantaloni in raso, corpini in taffetas, broccato e robe francesi, e il resto della folla, un po’ più sporca, unta dal lavoro e imbiancata dalla polvere spirata dalle macerie, tutta riunita a omaggiare nel felice giorno l’avvento del nuovo tempo, si presentò dinnanzi al giovane architetto, una minuta donna che per pochi tarì volle vendergli dei fogli, simili a carta straccia, sui quali a mala pena era visibile il disegno di un elefante del tutto simile a quello che egli stesso aveva creato.
Tremante per l’indicibile presagio e sudato come in un sogno febbrile, il giovane architetto stentava a credere al significato di quelle frasi in latino che narravano del viaggio e dell’incontro tra un giovane e un gigantesco elefante gravato dal peso di un obelisco sulla groppa. A chiare lettere e come monito sulla bardatura si leggeva "Cerebrum est in capite", ovvero l'intelletto è nel capo, mentre sulla fronte del pachiderma il duplice motto "fatica e industria". La storia narrava poi di come il giovane entrasse all’interno dell’animale attraverso un basamento, decorato su entrambi i lati da due figure, di cui una virile che invitava a continuare la “ricerca” e una femminile che suggeriva di "non toccare il corpo" e a "prendere la testa". Confuso e perso tra il brusio della folla indifferente, la venditrice completò il senso della sua merce, ammonendolo a bassa voce: "imperocché nel mundo chi vivendo vole thesoro avere, lassi stare el marcescente otio, significatio per il corpatio, et togli la decorata testa, che è quella scriptura, et hai thesoro, affaticantise cum industria". Stordito dal suono delle campane, dalla fanfara militare, dagli applausi della gente e abbagliato dal sole, con le mani in tasca in cerca di altri tarì che potessero aiutarlo a capire meglio, vide quell’elefante di lava, iniziare a muoversi e a volare, invitando gli astanti a vincere la "forza di gravità" e a guadagnare il "thesoro" della sapienza divina, che altro non era che l’emanazione di luce che veniva dall'obelisco. L’opera era compiuta, sotto il suo velo, un sogno svelava l'iniziazione dell'anima al suo destino segreto: l'unione mistica tra Amore e Morte, ma nessuno se n’era accorto. Dal coro di voci qualcuno invocò il nome del mago Eliodoro, pensando che quelli fossero i fogli del suo cerimoniale ebraico, altri pensarono che fosse opera del demonio, altri un'antica leggenda che narrava della ferocia di un elefante che in tempi antichi aveva difeso la città cacciando i nemici, altri ancora incominciarono a roteare come dervish al suono di Balad-el-fil e Medinat-el-fil, i restanti raccolsero qualche scatto con i loro i phone. Né l’architetto, né i notabili, né l’esercito e alcun domatore indiano, pakistano o cingalese che fosse riuscì ad aver la meglio sull’animale che da quel giorno continuò a volare sulla città rendendo impossibile la vita ai suoi malversatori e facendo beffa dei potenti.
testo e foto di s.mangiameli
Nessun commento:
Posta un commento