La pietà digitale
di santo mangiameli e sandra quagliata pubblicato in http://www.fotografia30.it/3224/la-pieta-digitale.htm e in http://www.canonclubitalia.com/
Ancora una Pietà, questa volta a colori, una pietà digitale. Il World
Press Photo 2012 racconta e premia la primavera araba citando la Pietà
di Michelangelo, l’autore è lo spagnolo Samuel Aranda. (foto 1). Tanti
sono stati i pareri, anche in opposizione, alla premiata foto, ma ad
Aranda va certo il merito di essere stato il solo fotografo occidentale
presente in Yemen durante le rivolte. Sul piano formale la foto che
ritrae Fatima Al-Qaws, la donna velata che abbraccia il figlio ferito a
Saana, dopo una manifestazione anti-governativa, è un’immagine
profondamente semplice e costruita sulle direttrici di una geometria
minimale. L’assoluta centralità del soggetto, il dualismo cromatico, la
neutralità della quinta lignea e il vuoto prospettico danno all’immagine
un elevato valore iconico che astrae la scena dal reale.
L’impossibilità, poi, di riconoscere i volti trasforma la foto in un
simbolo che parla universalmente della primavera araba.
Ciò che è
successo per la foto di Aranda non è certo un caso isolato. Già nel 1997
la Madone de Bentalha (foto 2) foto scattata ad Algeri da
Zaouar Hocine (France Presse), venne presentata sulle prime pagine di
settecentocinquanta testate mondiali come un’icona suggestiva di uno dei
temi più cari all’immaginario cristiano, vincendo nel 1998 il W.P.P.Riconoscendo i meriti alla fotografia, così carica di valori umani e
storici nel narrare e denunciare il massacro di quattrocentodiciassette
persone, appare però riduttivo riconoscerne il valore unicamente in
chiave iconica, ricordando anche quanto detto dal critico e storico
d’arte Georges Didi-Huberman sulla “colonizzizzazione” occidentale del
dolore di Oum Saâd, la donna musulmana ritratta.
Così è per le tante
“pietà” consegnateci dai grandi del fotogiornalismo: pensiamo a quelle
di Salgado, Nachtwey (foto 3) e alla celebre Tomoko Uemura in Her Bath
di Smith (foto 4), scattata a Minamata nel 1972 che riuscì a bloccare
il progressivo avvelenamento al mercurio della baia di Minamata, causato
dalla Chisso Corporation.
Tra tutte, la “pietà” di Smith ci mostra per
prima in che termini si possa tradurre in chiave iconografica un momento
emblematico della vita di Tomoko. Più volte si è detto come il modello
michelangiolesco emerga dallo scatto di Smith. Se c’è del vero, a nostro
avviso, questa lettura presenta dei limiti: Smith ribalta tutti i
valori della pietà romana, superando l’idealismo rinascimentale a favore
di un realismo storico di denuncia. Fermarsi soltanto al riconoscimento
iconografico delle immagini per avvalorarne significato e importanza
non ci sembra esaustivo, sarà lo stesso Michelangelo a ripensare la sua
scultura elaborando concettualmente, in tarda età, un’idea diversa di
pietà, declinata in termini più espressivi. Senza cadere in rigidi
parallelismi, le sculture di Michelangelo e lo scatto di Smith, ci
appaiono immagini complementari, lontane da ogni forma di clonazione
culturale. Così come Michelangelo per i manieristi, anche Smith
consegnerà una riflessione decisiva per le future generazioni. Accadrà
per Salgado, Lu Guang (foto 5 e 6) ed altri, al punto tale che sembra
riproporsi anche un “manierismo” fotografico.
Quando negli anni ‘20 del
Novecento Max Dvoràk riconobbe i segni di una crisi spirituale e di una
nuova sensibilità nelle opere dei manieristi, spiegò come le nuove
immagini fossero contraddistinte da una fantasia individuale e creatrice
in antitesi alle norme classiche. Al di là dell’ iconografia, la
riflessione soggettiva rappresenta il dato indispensabile di un
immagine. Così è per la “pietà” di Salgado, scattata in Sudan, potente
immagine della dignità della vita umana (foto 7).
Ci chiediamo dunque
quale possa essere, ancora oggi, l’utilità di alcuni pregiudizi
artistici sulla fotografia e dove porti l’astrazione imboccata dallo
spagnolo Aranda. Così la primavera araba viene raccontata dal gusto occidentale. Un
Occidente indiscusso che celebra l’ormai così vicino Oriente con una
codifica e decodifica apparentemente innocua eppure fortemente
politicizzata e ancora una volta imponente e imposta. Un Occidente che,
incapace d’interpretare, cita se stesso, omaggiandosi. L’estetica vince
sulla storia, sulla dignità e il riconoscimento che si dovrebbe ad ogni
cultura. E’, forse, integralismo occidentale? Icona, stereotipo di
quella civiltà dell’immagine che ai valori estetici ha attribuito
priorità, ancor prima del contenuto. Ed è ciò che temeva, riferendosi in
generale alla difficile scelta per la premiazione dell’importante già
citato concorso W.P.P, Renata Ferri membro della giuria e photo editor
di Io Donna, “Senti il rischio di iconizzare il dolore, di cadere negli
stereotipi.”. L’Occidente può identificarsi, espiando così la colpa,
bisognoso d’essere consolato e redento. E’, forse, ciò che avvenne nel
1955, con la mostra La famiglia dell’uomo di Edward Steichen
co-fondatore di Photo-secession, che arrivò, come dice la Sontag “…per
dimostrare che l’umanità è una e che gli esseri umani, nonostante i
difetti e le cattiverie, sono creature attraenti. Le persone raffigurate
nelle fotografie erano di tutte le razze” e ancora, secondo la Sontag,
ciò impedisce una comprensione storica della realtà, negando così il
peso delle differenze, dei conflitti che hanno le radici dentro la
storia. Secondo Renata Ferri la nuova Pietà di Aranda tratta di
“formalità classica a cui è difficile non dare retta”. La lettura
dell’immagine trova un bivio che in entrambe le direzione non può
soddisfare il passaggio alla storia che inevitabilmente fa la foto
premiata: occhi ingenuamente ignoranti o storicamente dominanti?
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