venerdì 13 maggio 2011

Non avrai altro dio all'infuori di me



 Mentre parlo, di rivoluzioni, di sogni, di libertà, di vita, accanto mi assediano parole di morte, equazioni chimiche, decomposizioni carnali. Oggi è pasqua e a me la pasqua mi ha fatto sempre pensare ad un’idea di rivolta, al superamento delle differenze nell’unica prospettiva della vittoria, quella dell’uomo. L’uomo su tutto, dalla storia alla storia attraverso l’estremo sacrificio. Ma ero  io a pensarlo, io che non ero cattolico, io che non potevo esserelo, pagavo il prezzo di un disagio, dell’insensatezza del quotidiano, della fragilità delle apparenze, della frenesia irriverente al silenzio della vita. Quel silenzio che supera in verità l’innumerevole possibilismo delle domande immediate. Sono profondamente convinto che, di fatto, in questa vita ci sia ben poco da discutere. Poche domande, molte senza risposta, poche che invece trovano soluzione in una rivoluzione che attendo da trentadue anni. Ma qui le parole di morte si inseguono come cani randagi sulla miseria smagrita. Mentre io masticavo sangue, il mio stomaco vibrava sulle corde dei miei pensieri. Era questa una conseguenza di tutto ciò che provavo ad identificare come berlusconismo? Era questo il regime? Erano questi i segni di una realtà profondamente mutata nelle sue intenzioni, nelle sue aspettative? Il disagio, la solitudine finivano con l’avanzare su ciò che rimaneva di un’apparente quiete domenicale. Aspettavo la sera come un disperato. Forse solo la sera, la notte, lei, avrebbero potuto acquietare le mie ansie. Rifugiati in patria, ecco cos’eravamo, esuli in casa. Tollerati a mala pena dai padri e dalle madri. Sebbene mortale, desideravo lo scontro: fatto di armi, di parole, di pensieri. Ero convinto che se fossi arrivato allo scontro, se avessi conquistato la parola, avrei potuto ambire alla libertà, all’uguaglianza, al rispetto degli umili, dei lavoratori. “Credi troppo nel genere umano!” Forse era vero, forse era questa la mia follia, la follia del rivoluzionario. Ma non volevo fare tutto ciò da solo, volevo condividere, disperatamente, condividere, pensando che nell’altro avrei potuto colmare la finitezza dei miei limiti, l’assenza che è congenita nell’esistenza del singolo, quel difetto che ci spinge a vivere, a sognare, a lottare. Ero uno di quelli a cui il dubbio tormenta l’intelligenza e avvelena l’ottimismo? Mi ero accorto “che gli uomini –non corrispondevano- all’idea del popolo, che il socialismo non corrispondeva all’idea del Socialismo –e- che essere lucidi vuol dire essere pessimisti”. Ma io quel pessimismo lo odiavo, non avevo scelta. Dinnanzi ad un ottimismo sociale, partitico, il mio era un ottimismo delle idee. Non mi rassegnavo all’idea che un uomo potesse morire per niente. Non esiste il caso, ogni morte è programmata e voluta da un potere che ci rende schiavi. “Non avrai altro dio all’infuori di me”. Era questo il mio pensiero di morte, mentre di morte si parlava. Lì sul quadrante gli ingranaggi muovevano il tempo velocemente verso la sera, il sole calava all’orizzonte, l’estate si apprestava a venire ed un vento tiepido annunciava un sogno africano che mi avrebbe dato sostegno. E poi capita a volte che ci si scorda di tutto, che ci si ritrovi dispersi. Ma è la stanchezza a vincerci. E’ il corpo che si impossessa della mente, tenendola in ostaggio, chiedendo un riposo che equivale al nulla, alla piacevole agiatezza dei vinti. Siamo tutti morti e non ce ne accorgiamo nemmeno. Ma quel corpo è vittima della morte, a lui è negata la resurrezione, freme a contare i lividi di una vita ostinata e crudele, soffre il vento freddo delle notti, l’afa del deserto, la paura del dolore. E’ il corpo della morte fisica, della decomposizione organica. Ma nella mente il mistero è svelato, il dio diventa uomo, il sogno si fa vita, storia, azione. Rinuncia all’essere divino e si fa pensiero, per poi tornare corpo, gambe braccia, mani, cuore, vista, tatto, udito. Così ci si ritrova, come per incanto, nell’istante in cui ci si era smarriti. Ti alzi come eroe in battaglia, indossi la giacca e affronti la strada, fosse solo per una banale scusa: sono finite le sigarette, anche se smettere di fumare riduce il rischio di malattie cardiovascolari e polmonari mortali. Muto, come un pesce, ritorni a nuotare, a contabilizzare la tua lotta, a risistemare i tuoi disegni, a correggere le storture angolari dello sguardo, a scegliere un’ottica sempre più ampia tale da abbracciare il mondo per quello che è, effimera palla malsana nell’universo, a strisciare nelle fogne del tuo carcere per scoprire l’essenza di ciò che vedi, l’essenza di una direzione necessaria e irrinunciabile.
testo e foto Santo Mangiameli

2 commenti:

  1. Credo che il sacrificio più grande sia non dimenticare un uomo morto. Dare sempre un senso a ciò che è stato, sapere che non dimenticare vuol dire essere un altro morto così che un altro ancora possa non dimenticare, eppure anch'esso si sentirà morto per un altro ancora. Forse è il senso più grande dell'essere uomini, dell'essere "un uomo". E non c'è grazia in tutta questa fatica se la grazia non la si senta perché si è capaci di non dimenticare. La memoria, che è grazia. E la grazia che torna su di se e diventa tormento per poi ritornare a a galla con il fiato corto e riprendere se stessa ancora una volta. Come la vita e il sacrificio d'aver dato la vita a un altro morto, così che anch'esso possa ritornare a galla respirare poi morire avendo dato già la vita. E allora un uomo e una donna non sono più vicini di così, danno la vita, allo stesso modo hanno un ventre fecondo e credo che da lì nasca l'immortalità.
    "ho un fiore qui dentro il pugno"

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