martedì 30 luglio 2013

"La Mémoire Et La Mer"




Leo Ferre

La mémoire et la mere



 

La marée, je l'ai dans le cur Qui me remonte comme un signe Je meurs de ma petite sur, de mon enfance et de mon cygne Un bateau, ça dépend comment On l'arrime au port de justesse Il pleure de mon firmament Des années lumières et j'en laisse Je suis le fantôme jersey Celui qui vient les soirs de frime Te lancer la brume en baiser Et te ramasser dans ses rimes Comme le trémail de juillet Où luisait le loup solitaire Celui que je voyais briller Aux doigts de sable de la terre Rappelle-toi ce chien de mer Que nous libérions sur parole Et qui gueule dans le désert Des goémons de nécropole Je suis sûr que la vie est là Avec ses poumons de flanelle Quand il pleure de ces temps là Le froid tout gris qui nous appelle Je me souviens des soirs là-bas Et des sprints gagnés sur l'écume Cette bave des chevaux ras Au raz des rocs qui se consument Ö l'ange des plaisirs perdus Ö rumeurs d'une autre habitude Mes désirs dès lors ne sont plus Qu'un chagrin de ma solitude Et le diable des soirs conquis Avec ses pâleurs de rescousse Et le squale des paradis Dans le milieu mouillé de mousse Reviens fille verte des fjords Reviens violon des violonades Dans le port fanfarent les cors Pour le retour des camarades Ö parfum rare des salants Dans le poivre feu des gerçures Quand j'allais, géométrisant, Mon âme au creux de ta blessure Dans le désordre de ton cul Poissé dans des draps d'aube fine Je voyais un vitrail de plus, Et toi fille verte, mon spleen Les coquillages figurant Sous les sunlights cassés liquides Jouent de la castagnette tans Qu'on dirait l'Espagne livide Dieux de granits, ayez pitié De leur vocation de parure Quand le couteau vient s'immiscer Dans leur castagnette figure Et je voyais ce qu'on pressent Quand on pressent l'entrevoyure Entre les persiennes du sang Et que les globules figurent Une mathématique bleue, Sur cette mer jamais étale D'où me remonte peu à peu Cette mémoire des étoiles Cette rumeur qui vient de là Sous l'arc copain où je m'aveugle Ces mains qui me font du fla-fla Ces mains ruminantes qui meuglent Cette rumeur me suit longtemps Comme un mendiant sous l'anathème Comme l'ombre qui perd son temps À dessiner mon théorème Et sous mon maquillage roux S'en vient battre comme une porte Cette rumeur qui va debout Dans la rue, aux musiques mortes C'est fini, la mer, c'est fini Sur la plage, le sable bêle Comme des moutons d'infini... Quand la mer bergère m'appelle

venerdì 12 luglio 2013

“L’ampedusa” dai media e storia migrante.

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Foto e testo di Santo Mangiameli, Sandra Quagliata


estratto del lavoro 
“L’ampedusa” dai media e storia migrante,
pubblicato su 
The Post Internazionale


“L’ampedusa” dai media e storia migrante

(testo integrale)
 

Il “Tg1” di Minzolini titola il 27 aprile 2011 “L’ampedusa, sbarco record”. L’apostrofo potrebbe essere l’inizio di una lunga discussione sulla trasformazione antropologica che è stata determinata dalla tv del ventennio, dell’ “homo videns” di Sartori, della nostra formazione da divano, della tv che non ci risponde a cui a poco a poco ci siamo abituati, dei social network e dell’illusione della partecipazione, ed è probabilmente vero, ma è ancor di più il segno tangibile della discontinuità tra la percezione della storia e il consumo del presente, della inconsapevolezza di una storia che ci passa accanto. “L’ampedusa” non è un errore grammaticale, ma il segno di una mancata attenzione, voluta distorsione di un sistema e di quei giornalisti che hanno perso ogni riferimento deontologico e ogni responsabilità nei confronti del mestiere. La “Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani” a cura della Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma denuncia che: «le carte deontologiche, la cui utilità appare necessaria ma non sufficiente per il corretto svolgimento della professione giornalistica, non bastano a garantire una rappresentazione del fenomeno migratorio realistica, veritiera e corretta. Non riescono a evitare, infatti, un’ambiguità di fondo, che lascia spazio - nel racconto dell’immigrazione e non solo - a varchi pericolosi in termini di influenza sulle percezioni di lettori e spettatori. La distorsione operata nel racconto della cronaca dell’immigrazione è piuttosto evidente».

La denuncia più forte arriva dai lampedusani, considerati dallo Stato, abitanti di una terra di passaggio: «Un sorriso per la stampa. Mentre si susseguono i soccorsi per i migranti, Lampedusa rischia di scontare l'effetto di un linguaggio ansiogeno ed emergenziale -composto da informazioni sommarie, disarticolate, riduttive e a volte false– dei mezzi di comunicazione, che presentano l'arrivo dei migranti come un'aggressione, un assedio e una minaccia di cui aver paura, tra l'altro senza avere alcun rispetto per chi arriva in condizioni disumane e soffre, e vanificando i risultati economici-turistici faticosamente raggiunti in questi anni dagli abitanti di Lampedusa. Stop al reality show». Il manifesto, collocato dall’associazione Alternativa giovani, su uno dei muri di cinta del porto diventato teatro degli sbarchi, dichiara con efficacia il pensiero di tanti lampedusani che provano a smascherare gli stereotipi di un’informazione trasmessa attraverso lo schermo dilatato delle politiche emergenziali e della minaccia costante. Lampedusa è un’isola che naviga al centro di un mare di mezzo e per la sua posizione ravvicinata alle coste africane è meta obbligata per i migranti. Su questa frontiera liquida la loro speranza disorientata si risolve nell’accoglienza obbligata all’interno del Cspa (Centro di soccorso e prima accoglienza) isolano di Contrada Imbriacola che s’impone come momento intermedio di una storia nata molto lontano, carica di premesse, ma malamente raccontata dai media, attenti soltanto a un’icona, a un epicentro drammatico: lo sbarco. Lampedusa però non è soltanto un momento mediatico ma l’isola dei lampedusani indissolubile dallo stesso mare dei migranti sopravvissuti e no. In prima linea il sindaco dell’isola Giusi Nicolini denuncia il contagio diffuso e consolidato di un’assuefazione al silenzio dell’Europa, destinataria del Nobel per la pace «che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra -e considera- questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente». Con lei i suoi abitanti e le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, restituiscono la giusta dignità di esseri umani ai migranti e all’immagine compromessa del nostro Paese e dell’Europa intera. L’assenza di un impegno globale e di una politica nel rispetto dei diritti umani, denuncia il “Rapporto annuale 2013” di Amnesty International, sta rendendo il mondo sempre più pericoloso per i rifugiati e i migranti. Così a crescere sono soltanto i rischi connaturati al viaggio e le condizioni di vita all’interno dei centri di accoglienza, sempre più precarie a partire dal “Villaggio della Solidarietà” di Mineo, tappa obbligata per tanti migranti sbarcati a Lampedusa.

Il Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo) di Mineo, la cui condizione giuridica è anomala poiché opera anche come Cie (Centro di identificazione ed espulsione), è il più grande d’Europa per numero di migranti, oltre 2.800 su una capienza massima di 1.800. Per l’inadeguata assistenza sanitaria, i numerosi casi di tentato suicidio, l’isolamento dai centri abitati, la cattiva gestione legata al business dei finanziamenti pubblici, la tempistica raggirata nei processi di riconoscimento giuridico, per le disparità che interessano le richieste di permessi umanitari, denuncia la Rete antirazzista catanese, il mega Cara siciliano va necessariamente chiuso: «Con la metà del denaro pubblico dilapidato si sarebbero potute accogliere, moltiplicando i progetti Sprar (Servizio di protezione richiedenti asilo e rifugiati), altrettante persone in piccoli e medi paesi, favorendo il loro progressivo inserimento sociale e lavorativo, con positive ricadute nelle disastrate economie locali». Come gli altri centri d’accoglienza, anche il Cara di Mineo rimane un luogo sconosciuto ai grandi media, indifferenti alle problematiche di una delle realtà più tragiche del nostro Paese. All’interno di uno spazio militarizzato, inaccessibile, la storia si fa concreta nei volti e nei racconti dei migranti, in essi traspare la nuova identità del Mediterraneo, segnata dalle rotte di genti in fuga da calamità come quelle del Sahel, dalle guerre dell’Africa magrebina e subsahariana, dai Balcani, dal Pakistan, Afghanistan, Iran, Iraq, Bangladesh. Nelle storie raccolte nei mesi -perché nel tempo ci è stata data la fiducia e la possibilità di comprendere l’intima natura dell’incontro e dello scambio che nel Centro s’impone- c’è un disagio comune che parla di violenze, povertà, smarrimento, dittature e diritti negati e che agisce sulle motivazioni del viaggio di ogni singolo migrante, sia sul piano dell’esperienza individuale che su quello di un contesto geopolitico e ambientale in continuo cambiamento.

L. e J. erano entrambi bambini durante la guerra civile che iniziò nel 1991 in Sierra Leone e vide contrapporsi civili e gruppi paramilitari formati perlopiù da bambini soldato, sottratti alle loro famiglie, drogati e scioccati, costretti spesso a dover uccidere i propri familiari, divenivano per le milizie perfetti combattenti.

L. ci racconta che nel 1993 trovò rifugio insieme alla madre a cui le forze del Ruf (Fronte rivoluzionario unito) avevano amputato gli arti superiori, dentro un campo Unicef.

J. figlio del capo di un villaggio che nel 1993 venne devastato dalla violenza del Ruf, divenne bambino soldato dopo aver subito la perdita dei genitori e della propria casa. Dal 2011 riescono a condividere gli stessi spazi nel centro di Mineo solo attraverso l’ausilio dei loro stessi connazionali.



O. ventunenne nigeriano di religione cristiana, ha perso i genitori uccisi a nord della Nigeria da estremisti islamici del movimento Boko Haram (il cui nome in lingua locale significa “l’educazione occidentale è un peccato”), rimasto solo decide di partire per la Libia dove incontra M. anch’esso nigeriano di 30 anni, laureato in economia, che ha affrontato il deserto a bordo di un camion in cerca di lavoro. Perso il cugino sotto le bombe di Misurata M. decide di partire insieme a O. per Lampedusa. Arrivano dopo una traversata durata cinque giorni e pagata mille dinari. O. dice: «non volevo morire come i miei genitori, se l’Italia va bene resto, se no vado via».



Il 5 giugno 2013 l’ “International Herald Tribune” mette in prima pagina il reportage dal titolo “L'Italia sotto accusa per la detenzione degli immigrati illegali dichiarando: «Il Cie alla periferia di Roma, dove gli immigrati illegali possono passare mesi in attesa di essere rimpatriati, non è una prigione. Ma la differenza è solo una questione di semantica». La stampa internazionale ci richiama all’anomalia tutta italiana del mancato interesse dei media e dell’opinione pubblica nei confronti di “strutture inumane, inefficaci e costose”.




















lunedì 8 luglio 2013

Lampedusa: oltre la globalizzazione dell'indifferenza

                  




"La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, – ha aggiunto Francesco – ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro. Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti ‘innominati’, responsabili senza nome e senza volto”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/08/lampedusa-papa-cultura-del-benessere-ci-porta-a-globalizzazione-dellindifferenza/649337/
"Non vi sono dubbi: è un gran bel gesto quello di papa Francesco che ha scelto quale meta del suo primo viaggio pastorale Lampedusa. L'isola che non è solo confine geografico e amministrativo, ma anche quel confine umano, morale, politico che marca i limiti della nostra presunta civiltà." ... "Ci piace poiché piangere i morti è rito universale, atto transreligioso e transculturale per eccellenza, che sottrae i non più vivi all'anonimato, all'insignificanza, all'oblio."
http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/9671/