Foto e testo di Santo Mangiameli,
Sandra Quagliata
estratto del lavoro
“L’ampedusa” dai media e storia migrante,
pubblicato su
The Post Internazionale
“L’ampedusa” dai media e storia migrante
(testo integrale)
Il “Tg1” di Minzolini titola il 27 aprile 2011 “L’ampedusa,
sbarco record”. L’apostrofo potrebbe essere l’inizio di una lunga discussione
sulla trasformazione antropologica che è stata determinata dalla tv del
ventennio, dell’ “homo videns” di Sartori, della nostra formazione da divano,
della tv che non ci risponde a cui a poco a poco ci siamo abituati, dei social
network e dell’illusione della partecipazione, ed è probabilmente vero, ma è
ancor di più il segno tangibile della discontinuità tra la percezione della
storia e il consumo del presente, della inconsapevolezza di una storia che ci
passa accanto. “L’ampedusa” non è un errore grammaticale, ma il segno di una
mancata attenzione, voluta distorsione di un sistema e di quei giornalisti che
hanno perso ogni riferimento deontologico e ogni responsabilità nei confronti
del mestiere. La “Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani”
a cura della Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università La Sapienza
di Roma denuncia che: «le
carte deontologiche, la cui utilità appare necessaria ma non sufficiente per il
corretto svolgimento della professione giornalistica, non bastano a garantire
una rappresentazione del fenomeno migratorio realistica, veritiera e corretta.
Non riescono a evitare, infatti, un’ambiguità di fondo, che lascia spazio - nel
racconto dell’immigrazione e non solo - a varchi pericolosi in termini di
influenza sulle percezioni di lettori e spettatori. La distorsione operata nel
racconto della cronaca dell’immigrazione è piuttosto evidente».
La denuncia più forte arriva dai lampedusani, considerati
dallo Stato, abitanti di una terra di passaggio: «Un sorriso per la stampa. Mentre
si susseguono i soccorsi per i migranti, Lampedusa rischia di scontare
l'effetto di un linguaggio ansiogeno ed emergenziale -composto da informazioni
sommarie, disarticolate, riduttive e a volte false– dei mezzi di comunicazione,
che presentano l'arrivo dei migranti come un'aggressione, un assedio e una
minaccia di cui aver paura, tra l'altro senza avere alcun rispetto per chi
arriva in condizioni disumane e soffre, e vanificando i risultati
economici-turistici faticosamente raggiunti in questi anni dagli abitanti di Lampedusa.
Stop al reality show».
Il manifesto, collocato dall’associazione Alternativa giovani, su uno dei muri
di cinta del porto diventato teatro degli sbarchi, dichiara con efficacia il
pensiero di tanti lampedusani che provano a smascherare gli stereotipi di un’informazione
trasmessa attraverso lo schermo dilatato delle politiche emergenziali e della
minaccia costante. Lampedusa è un’isola che naviga al centro di un mare di mezzo e per la sua posizione
ravvicinata alle coste africane è meta obbligata per i migranti. Su questa
frontiera liquida la loro speranza disorientata si risolve nell’accoglienza
obbligata all’interno del Cspa (Centro di soccorso e prima accoglienza) isolano
di Contrada Imbriacola che s’impone come momento intermedio di una storia nata
molto lontano, carica di premesse, ma malamente raccontata dai media, attenti
soltanto a un’icona, a un epicentro drammatico: lo sbarco. Lampedusa però non è
soltanto un momento mediatico ma l’isola dei lampedusani indissolubile dallo
stesso mare dei migranti sopravvissuti e no. In prima linea il sindaco
dell’isola Giusi Nicolini denuncia il contagio diffuso e consolidato di un’assuefazione al silenzio
dell’Europa, destinataria del Nobel per la pace «che tace di fronte ad una
strage che ha i numeri di una vera e propria guerra -e considera- questo tributo di vite umane un modo per calmierare i
flussi, se non un deterrente». Con lei i suoi abitanti e
le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, restituiscono la giusta
dignità di esseri umani ai migranti e all’immagine compromessa del nostro Paese
e dell’Europa intera. L’assenza di un impegno globale e di una politica nel
rispetto dei diritti umani, denuncia il “Rapporto annuale 2013” di Amnesty
International, sta rendendo il mondo sempre più pericoloso per i rifugiati e i
migranti. Così a crescere sono soltanto i rischi connaturati al viaggio e le
condizioni di vita all’interno dei centri di accoglienza, sempre più precarie a
partire dal “Villaggio della Solidarietà” di Mineo, tappa obbligata per tanti
migranti sbarcati a Lampedusa.
Il Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo) di Mineo, la
cui condizione giuridica è anomala poiché opera anche come Cie (Centro di
identificazione ed espulsione), è il più grande d’Europa per numero di
migranti, oltre 2.800 su una capienza massima di 1.800. Per l’inadeguata
assistenza sanitaria, i numerosi casi di tentato suicidio, l’isolamento dai
centri abitati, la cattiva gestione legata al business dei finanziamenti
pubblici, la tempistica raggirata nei processi di riconoscimento giuridico, per
le disparità che interessano le richieste di permessi umanitari, denuncia la
Rete antirazzista catanese, il mega Cara siciliano va necessariamente chiuso: «Con la metà del denaro
pubblico dilapidato
si sarebbero potute accogliere, moltiplicando i progetti Sprar
(Servizio di protezione richiedenti asilo e rifugiati), altrettante persone in
piccoli e medi paesi, favorendo il loro progressivo inserimento sociale e
lavorativo, con positive ricadute nelle disastrate economie locali». Come gli
altri centri d’accoglienza, anche il Cara di Mineo rimane un luogo sconosciuto
ai grandi media, indifferenti alle problematiche di una delle realtà più
tragiche del nostro Paese. All’interno di uno spazio militarizzato,
inaccessibile, la storia si fa concreta nei volti e nei racconti dei migranti,
in essi traspare la
nuova identità del Mediterraneo, segnata dalle rotte di genti in fuga da
calamità come quelle del Sahel, dalle guerre dell’Africa magrebina e
subsahariana, dai Balcani, dal Pakistan, Afghanistan, Iran, Iraq, Bangladesh. Nelle
storie raccolte nei mesi -perché nel tempo ci è stata data la fiducia e la
possibilità di comprendere l’intima natura dell’incontro e dello scambio che
nel Centro s’impone- c’è un disagio comune che parla di violenze, povertà,
smarrimento, dittature e diritti negati e che agisce sulle motivazioni del
viaggio di ogni singolo migrante, sia sul piano dell’esperienza individuale che
su quello di un contesto geopolitico e ambientale in continuo cambiamento.
L. e J. erano entrambi
bambini durante la guerra civile che iniziò nel 1991 in Sierra Leone e vide
contrapporsi civili e gruppi paramilitari formati perlopiù da bambini soldato, sottratti
alle loro famiglie, drogati e scioccati, costretti spesso a dover uccidere i
propri familiari, divenivano per le milizie perfetti combattenti.
L. ci racconta che nel
1993 trovò rifugio insieme alla madre a cui le forze del Ruf (Fronte
rivoluzionario unito) avevano amputato gli arti superiori, dentro un campo
Unicef.
J. figlio del capo di un
villaggio che nel 1993 venne devastato dalla violenza del Ruf, divenne bambino
soldato dopo aver subito la perdita dei genitori e della propria casa. Dal 2011
riescono a condividere gli stessi spazi nel centro di Mineo solo attraverso
l’ausilio dei loro stessi connazionali.
O. ventunenne nigeriano
di religione cristiana, ha perso i genitori uccisi a nord della Nigeria da
estremisti islamici del movimento Boko Haram (il cui nome in lingua locale
significa “l’educazione occidentale è un peccato”), rimasto solo decide di
partire per la Libia dove incontra M. anch’esso nigeriano di 30 anni, laureato
in economia, che ha affrontato il deserto a bordo di un camion in cerca di
lavoro. Perso il cugino sotto le bombe di Misurata M. decide di partire insieme
a O. per Lampedusa. Arrivano dopo una traversata durata cinque giorni e pagata
mille dinari. O. dice: «non volevo morire come i miei genitori, se l’Italia va
bene resto, se no vado via».
Il 5 giugno 2013 l’ “International
Herald Tribune” mette in prima pagina il reportage dal titolo “L'Italia
sotto accusa per la detenzione degli immigrati illegali” dichiarando: «Il Cie alla periferia di Roma, dove gli immigrati
illegali possono passare mesi in attesa di essere rimpatriati, non è una
prigione. Ma la differenza è solo una questione di semantica». La stampa
internazionale ci richiama all’anomalia tutta italiana del mancato interesse
dei media e dell’opinione pubblica nei confronti di “strutture inumane,
inefficaci e costose”.
Nessun commento:
Posta un commento