L’atmosfera è inconfondibile, quella di un
paese in festa.
La gente, che riempie le strade e la piazza è la stessa che da sempre, almeno una volta l’anno, si
accalca sul corso, anche l’odore è di torrone e zucchero filato.
L’attesa però
è diversa: per una volta a spalancarsi non sono più le ante tarlate della vecchia
matrice ma l’oblò di un carroccio itinerante che al paradiso ha preferito un
cielo a cinque stelle, alle vesti mute
del santo la vis comica del guitto, alla sacralità un po' naïf dell’icona lignea l’icasticità grottesca della pantomima.
Qualcosa è cambiato, a dire il vero non
saprei cosa, ma a naso direi proprio di sì e la piazza ne è la dimostrazione.
A
sentirla ridere mette quasi paura: ecco il nuovo che avanza, la kermesse
messianica, il potere taumaturgico.
Troppa
semplificazione nei concetti,
confusione sul chi, sul come e il dove, nessuna
distinzione tra presente e passato, storia e idee.
Forse sono questi i mattoni di
un nuovo muro tutto italiano, e c’è chi sui muri ci sa stare,
perché non è dei
mattoni la natura del muro,
ma dell’autorità con cui si è soliti chiamarlo
muro.
Così dal comico nasce il tragico.
Nel disagio mi astengo. Se il
frastuono e la nuova fede urlata -che tutto vuole, tutto abbraccia,
tutto esalta e tutto nega- cresce in modo esponenziale all’unisono dei gesti
del piccolo architetto del nulla, provo a scivolare nel silenzio,
ad annullare
la panto-fonia 3.0,
ad ascoltare con gli occhi,
immerso nel silenzio di una
vasca.
Qui tra lo sfocato delle bolle ci vedo meglio.
Ovattare gli
idoli è la mia idea di democrazia: funziona ancora. E poi sarà anche che a me
piace il tonno e che difficilmente mi torna identico al parlamento.
testo e foto Santo Mangiameli
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