"Era
la metà degli anni settanta. L’Africa entrava nel suo ventennio più buio.
Guerre civili, rivolte, colpi di stato, carneficine, e con essi la fame per
milioni di abitanti del Sahel (Africa occidentale) e dell’Africa orientale (soprattutto
Sudan, Ciad, Etiopia e Somalia): questi alcuni tra i sintomi della crisi. L’epoca
piena di promesse e di speranze degli anni cinquanta e sessanta era finita. A
quel tempo la maggior parte dei paesi del continente si era liberata dal
colonialismo, iniziando un’esistenza di stati indipendenti. Politologi ed
economisti di tutto il mondo erano convinti che la libertà avrebbe
automaticamente portato con sé il benessere, trasformando l’antica miseria nel
regno dell’abbondanza. (…) Ma le cose erano andate diversamente. I nuovi stati
africani erano diventati il teatro di accanite lotte per il potere, dove tutto
era stato messo a profitto: conflitti etnici e tribali, forze militari,
tentativi di corruzione, minacce di omicidio. Nello stesso tempo, i nuovi stati
si rivelavano deboli, incapaci di espletare le loro funzioni fondamentali. E
tutto questo nel contesto della guerra fredda, che Oriente e Occidente avevano
esteso anche al continente africano. Una guerra le cui caratteristiche furono l’assoluta
ignoranza dei problemi e degli interessi dei paesi deboli e dipendenti; il
trattare i loro drammi e vicende solo in funzione dei propri interessi di
grandi potenze; infine, il negare loro qualsiasi peso e significato autonomo. A
tutto ciò si aggiungeva l’ormai tradizionale boria e arroganza eurocentrica nei
confronti di culture e di società non bianche."
Ryszard Kapuscinski, EBANO.
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